Paesaggi diventati abituali, il treno che rallenta sul solito fiume, le luci delle case come tante stelle sparse nel buio dell’inverno, la discesa sulla banchina avvolta nell’oscurità, l’imbocco del sottopassaggio…
sempre la solita scena, ogni settimana sempre più stanca di questo padano caracollare da un fianco all’altro del Po, lasciato continuamente spoglio da una primavera in ritardo.
Intorno poca gente vestita di scuro che emana spossatezza, una processione silenziosa di fantasmi assorti in se stessi che si avvicina alla porta del vagone. Li seguo in coda e appena metto piede a terra, sento qualcosa di nuovo nell’aria, un profumo, un odore che conosco benissimo ma che non riconosco affatto. Guardo i passanti per vedere se anche nei loro sguardi c’è meraviglia, se c’è la luce di chi ha intuito ed individuato qualcosa di insolito, ma sono tutti troppo intabarrati nei baveri dei propri cappotti per riuscire a scorgerne un’espressione qualsiasi. Mentre percorro il sottopassaggio della ferrovia si dilegua l’odore acre dei binari e nella mia mente passo in rassegna ricordi profumati per individuare quello di questo adesso inaspettato; persa nel mio passato rallento il passo per stare al passo con il lento fluire di immagini e affetti che la memoria riconduce al naso. I cappotti mi sorpassano velocemente e in pochi secondi spariscono dietro l’angolo che porta alla scalinata. Sono da sola e da sola sorrido perché l’aria stasera è leggera e buona, come le torte che faceva mia nonna quando sapeva che noi, ancora bambini, saremmo andati a trovarla nel pomeriggio, quelle torte che si intuivano fin dalle scale, che ci portavano a correre veloci su per i gradini risvegliandoci un appetito che non avevamo e che all’aprirsi della porta facevano esplodere il loro sapore dolce non ancora morso. Burro, miele… no, non è questo. Questo è meno domestico, più raro. Eppure l’avrò sentito cento volte. Cammino verso fuori e scavo dentro. Io più grande in mezzo ai boschi sotto la pioggia. Freddo, odore di rana e di terre che custodiscono segreti vegetali, passi impacciati nel fango, alberi scuri, cespugli che graffiano, vestiti fradici appiccicati alla pelle che improvvisamente sono diventati pesanti, come la coscienza di un assassino di un secondo fa. Fastidio al tatto per quella pioggia felice e profumata e ti chiedi perché una bella sensazione debba sempre rovinare, impacciare o cancellarne un’altra. Non esiste il piacere puro. Flash sui banchi di scuola durante lezioni di filosofia che puzzavano di noia. Non c’entra. Salgo la collina con le scarpe che si intrappolano nel pantano di radici confuse e penso che probabilmente no, non esiste una sensazione pura perché sempre un senso viene accompagnato da un altro in una magica sinestesia che rende le esperienze complete ma non nitide. Come studiare un fenomeno da più punti di vista che si compenetrano, che facilitano la comprensione, ma che non stupiscono perché si avvertono a vicenda, si anticipano, si aiutano. Pioggia nei polmoni felici e freddo che irrita il tatto. Ci assomiglia, ma non è nemmeno questo. Ora è un odore secco, sterile. Anni dopo, ospedale. Odore di medicinale, di ambienti asettici, di sterilizzazione, odore di batteri più furbi della candeggina, di fiori di consolazione, di bambini tristi, odore di disperazione, quello stesso odore che si vede negli occhi di chi valica con passo impaurito i corridoi. Un fetore visibile nelle espressioni lacerate da speranze svanite o in quelle ancora colorite da una flebile luce positiva nella quale non si crede fino in fondo. Odori che non si laveranno mai dalle anime. Odori che si vedranno nitidamente per sempre.
Ma questo è un odore meno crudele, anche se ora, alla fine del sottopassaggio, mentre salgo le scale per uscire sulla piazza, mi investe di colpo e sembra diventato più violento. Mi viene in mente quando ho voluto a tutti i costi sondare lo stato di putrefazione del gatto che avevo seppellito dieci mesi prima. Aprendo la cassetta una nube fetida mi aveva investito fino a farmi indietreggiare, come ora mi ha investito questa, però buona. Uguale la botta di stupore per la forza dell’ondata di odore, diverso che stavolta non gli è succeduta anche un’ondata di vomito. Lacrime. Mi stupirei se stessi ancora piangendo per il gatto, ma infatti non è. E’ questo sapore nell’aria che prende anche gli occhi e arriva fino in fondo, giù giù nel profondo della gola fino alle viscere e nel profondo di ricordi che gli appartengono. Inizio a spazientirmi per la lentezza della mia memoria e penso che qualche altro senso mi dovrebbe aiutare nel riconoscere questo odore familiare, e mi dovrebbe aiutare perché quell’altro non può essere puro, ma contemporaneamente non dà segnali alla vista, non comunica nulla all’immaginazione, non si rende palese al tatto e non si mangia. O forse sono solo troppo stanca per ascoltarmi e non verrò a capo di stralci di vita ovattati dal tempo che è passato dall’ultima volta che ho sentito questo odore, che è un odore che è sempre esistito e che è insieme miele gatto pioggia freddo vita torte e morte. E’ un odore di tutto, di storia, un odore che ne ha viste tante, ma che non metto a fuoco, forse perché è freddo.
Un passo prima della porta. Un lampo, capisco. Il silenzio. Il silenzio avrebbe dovuto aiutarmi. Sorrido, mi ricordo le giornate intere trascorse a giocare con mio fratello, a lottare coi miei cugini e i miei amici, ai giorni colorati di natale, a mia nonna che ci controlla dalla finestra con quel suo sguardo benevolo e stanco, le sere passate davanti al camino a riposare, con le scintille dei gusci delle castagne che scoppiettano mentre ci si scalda, alle tre paia di calze a matrioska ormai fradice, e anche allora c’era sempre un silenzio perfetto, incorruttibile, un silenzio da cima di montagna vissuta al rallentatore, un silenzio da sogno sereno. Un silenzio puro, accompagnato solo da quel profumo frizzante.
Un passo dopo. Sono fuori. E’ tutto bianco.
sabato 25 ottobre 2008
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