LA FANTA...SIA AL POTERE!

domenica 23 novembre 2008

Chiamatemi pure Henry - Prosa di Samanta De Santis

«Chiamatemi pure Henry, Henry Morgan» escalmò quasi con gioia, e con una punta d’orgoglio, appoggiando con forza lo stivale lucido sulla sedia sudicia della locanda.
“Al Cannocchiale Rotto” c’era scritto fuori: un’accozzaglia di urla gracchianti, pugni su tavoli con carte da gioco unte e sbiadite, risse improvvisate e femmine scollacciate. Ma sapeva che era lì che doveva andare.
Quando entrò gli sguardi si volsero a quella figura brillante e carismatica, dal passo quasi felino, agile ma imponente. Portava un ampio cappello scarlatto con una piuma verde smeraldo che vibrava ad ogni suo movimento, quasi a coronare quel giovane aspetto, dai fluenti capelli rossi come il rame, gli occhi neri e luccicanti, pieni di ironia, o forse di scherno, con scurissime ciglia lunghe, che davano ancor più fascino al suo sguardo, vispo e accattivante, come quello di un ragazzo. Anche se ragazzo non lo era più, già da tempo. Unico, ma al contempo magnetico e irresistibile. Il lungo mantello dello stesso color porpora del copricapo, lo seguiva rimanendo sempre un po’ sollevato da terra, come a ricordare a coloro che lo osservavano che lui era il pirata più inafferrabile dei mari. Tutti sapevano chi fosse, ma nessuno poteva provarlo.
Se ne stava là impettito, con le braccia sui fianchi, e la gamba sollevata, con il suo solito sorriso, che pareva più un ghigno di derisione. Tutti i presenti, come per magia tacevano, quando di solito era strano persino vederli seri in faccia, o vedere le loro disgustose boccacce serrate, e i loro sguardi, perlopiù bendati, attenti e curiosi di scoprire cosa stesse per accadere.
«Era ora, Morgan. Come mai ci hai messo tanto? Dovevi farti bello?», tuonò dal fondo della bettola una voce roca e quasi strozzata, consumata dalla salsedine, e dalle grida di forse troppi arrembaggi. Si alzò un uomo con un cappellaccio usurato, che un tempo doveva essere appartenuto a qualche ufficiale che, suo malgrado, sarà incappato lungo la rotta di un filibustiere degno di tale nome, come lui. Pochi capelli sfilacciati e ingrigiti incorniciavano il volto rugoso, macchiato dal sole rovente dei Tropici, da cui spiccavano occhi che parevano color argento, semi chiusi, che studiavano il pirata splendente e presuntuoso all’ingresso della locanda.
Una serie di risate sguaiate e sommesse ruppero quel silenzio glaciale che si era creato. Ma l’attenzione di tutti venne richiamata immediatamente all’accenno di una risatina sarcastica del bel pirata:
«Suvvia, Daneel, dimenticate forse che non ho alcun bisogno di perdere del tempo per la cura del mio aspetto, dato che già vi si è occupata in maniera eccellente la natura quando fui messo al mondo… Ero occupato con una bella dama a cui, ehm… dovevo consegnare una pregiata bottiglia di gin, e si sa, un impegno preso va mantenuto…», assunse quel suo tono impertinente e fece un cenno col capo socchiudendo gli occhi con fare di superiorità, accompagnato dal solito scuotersi della piuma, che sembrava quasi confermare le sue provocazioni.
Il corsaro s’irrigidì dalla collera, che gli fece assottigliare ancora di più lo sguardo. Poi si calmò di colpo, e con un lieve scatto drizzò la postura, sogghignando e mostrando i tre denti d’oro:
«Ti concedo di fare ancora per un po’ lo sbruffone, Morgan, sappiamo entrambi che saranno le tue ultime glorie da spaccone su quest’isola», mormorò, e la sua voce si fece ancor più roca, tanto da sembrare più un ruggito smorzato.
«Oh lo spero tanto, c’è una moltitudine di fanciulle che aspetta il mio ritorno a Londra, non vorrei farle attendere troppo. Non siete d’accordo, Sir Dan?», esclamò superbo.
L’uomo furente balzò sul tavolo e con un salto arrivò di fronte al bel pirata, sguainò la sciabola e gliela puntò alla gola. Morgan piegò lievemente il capo all’indietro:
«Sir, non credo sia il caso disturbare la piacevole sosta di questi signori. Spero non vi dispiaccia se andassimo fuori a discorrere dei nostri affari. Dopo di voi…», scostando leggermente l’arma affilata, fece come un inchino e con l’elegante braccio indicò la porta sgangherata, tagliuzzata dai segni di chissà quanti colpi mancati delle migliaia di zuffe, a cui la lurida taverna aveva fatto da sfondo.

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