Febo. E' questo il mio nome. Ormai, per tutti noi, essere chiamati per nome è diventata una cosa normale, ma un tempo non era così
Non era così neanche per me prima che incontrassi Jules, il Nostro Messia, che nel giorno della mia rinascita, il giorno in cui persi la mia famiglia, non mi donò solo un modo per distinguermi dagli altri, ma mi fece altri due regali molto più importanti: la vita e la luce.
Ma perché tutto abbia un senso devo cominciare dall'inizio, dall'inizio della mia nuova vita.
La mia debole mente non può spingersi molto indietro nel tempo, ma quel giorno non me lo dimenticherò mai. Mi ricordo che avevo quattro fratelli con cui giocavo da piccolo e una madre, una tenerissima madre che si prendeva cura di noi e ci scaldava nelle giornate invernali più rigide. Era così bello stare tra le sue braccia che mi sarebbe bastato quello per tutta la vita. Ma mia madre, nel suo infinito amore per noi, desiderava una vita diversa per i suoi figli e sempre ci parlava, se così si può dire, di un mondo in cui le cose avevano colori, un mondo in cui avremmo potuto utilizzare quelle due cavità che avevamo in mezzo alla fronte e che da tempo ci chiedevamo a cosa servissero.
Ogni mattina la nostra mamma si svegliava presto e ci lasciava soli per qualche ora. Durante quelle ore, nonostante la costante presenza dei miei fratellini, mi sentivo solo e temevo che la mamma prima o poi non sarebbe più tornata. Ma la mamma tornava sempre, carica di regali e di cose buone da mangiare per noi. E ogni giorno facevamo festa. Mi piaceva davvero tanto vivere così, avvolto dal tenero abbraccio di mia madre e delle tenebre, quelle tenebre che ci nascondevano dalla crudeltà del mondo esterno. Ma un giorno , quel giorno, la mamma, andando contro al suo istinto, decise che era venuto il momento di diradare quelle tenebre e ci fece cenno di seguirla nella sua passeggiata mattutina. Mi ricordo che percorsi il lungo e oscuro cunicolo subito dietro alla mamma seguito dai miei quattro fratellini.
Fui il primo a vedere.
A vederla.
La Luce.
Si fece strada tra le mie due cavità, cavità che poi imparai a chiamare occhi, dapprima come un puntino infinitesimo che mi provocava una sensazione diversa dalle tenebre che da sempre mi circondavano. Quel puntino bianco che si allargava mano a mano che camminavo verso di lui fu la prima cosa che vidi e non me lo dimenticherò mai. Faccio davvero fatica a descrivere quello che provai nel momento in cui scoprii di avere un senso in più, che ora chiamiamo vista, posso solo dire che fu un'esperienza bellissima e traumatica. Più mi avvicinavo al punto bianco di fronte a me e più sensazioni contrastanti si avvicendavano nel mio cervello. Quel senso a lungo assopito mi diede una descrizione nuova, diversa e incredibilmente chiara di mia madre che correva precedendomi e dei miei fratellini che mi seguivano disorientati e sconcertati quanto me. La curiosità mi pervase e cominciai a correre sempre più veloce fino a quando la sensazione che mi provocava quel punto bianco, che ormai occupava quasi tutto lo sfondo, si trasformò in dolore, un dolore talmente forte che mi costrinse di nuovo a chiudere gli occhi che da così poco tempo avevo aperto. Quando li riaprii quello che provai mi fece quasi svenire: quella che ora chiamiamo Luce, mi trafisse gli occhi con sconcertante violenza, portando con se la visione di un mondo nuovo e straniero, un mondo pieno di sensazioni belle e curiose, i colori di cui mia madre mi aveva spesso parlato, un mondo in cui le cose avevano una forma che riuscivo a definire anche senza toccarle. Era tutto così fantastico che, nonostante i continui rimproveri della mamma, non riuscivo a stare fermo spinto da un'immensa voglia di scoprire, sperimentare e soprattutto di vedere.
Ma la cosa che in quel momento mi provocava una curiosità sempre maggiore era la fonte di tanta magnificenza, così, totalmente dimentico della mia famiglia, cominciai ad incamminarmi come un allucinato verso il punto in cui la Luce si addensava di più. A mano a mano che mi avvicinavo a quel groviglio di raggi luminosi provai una via via crescente sensazione simile a quella che mi provocava mia madre quando mi stringeva tra le sue braccia, ma amplificata di cento, di mille volte. Quando arrivai a perpendicolo dei raggi il tremendo dolore che provai mi fece di nuovo chiudere gli occhi, ma in quel momento vidi che la fonte della Luce era ancora una volta un punto sospeso a una distanza incommensurabile. Quel punto, non solo mi feriva gli occhi, ma mi provocava anche una sensazione stranissima alla pelle che non somigliava più al tenero abbraccio della mamma; sentivo che il mio corpo avrebbe voluto strapparsi la pelle di dosso per lasciare spazio alla morsa della Luce. A poco a poco però quella sensazione divenne piacevole, anche più piacevole e avvolgente delle coccole di mia madre, e mi invitò ad aprire pian piano gli occhi. Ciò che vidi mi tolse il fiato tanto che volevo gridare per la meraviglia ma non ce la facevo. Vidi che il mondo era immenso, molto più grande di quanto la mia mente avesse mai creduto e sovrastato da una cosa di un solo bellissimo colore.
Ero talmente felice che continuavo ad agitarmi, avevo voglia di esplorare quel paradiso stranissimo e di tuffarmi tra i peli teneri di quel terreno monocolore, tanto che mi dimenticai completamente della mia famiglia e cominciai a correre in quegli spazi sconfinati.
E quella mia voglia di libertà fu il mio unico, enorme errore che tuttora mi grava ancora sulla coscienza.
La mia esuberante incoscienza attirò l'attenzione di un mostro di superficie. Quella strana bestia pelosa si avvicinò a me con fare malizioso: i suoi movimenti avevano un non so che di ipnotico e il mio sguardo fu subito rapito dal suo portamento elegante tanto che non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso, nonostante il mio istinto mi dicesse di fuggire a gambe levate. La creatura si avvicinò sempre di più fino a quando riuscii a distinguere che qualcosa di bianco e minaccioso gli brillava tra le zampe anteriori. Quello che avvenne dopo fu talmente fulmineo e terribile che faccio molta fatica a ricordarlo. Rammento solo che il mostro sorrise beffardo prima di balzarmi addosso con incredibile ferocia, non dimenticherò mai quel ghigno argenteo che tuttora mi costringe a lottare e che dilaniò mia madre in un centesimo di secondo; la mia povera e dolce mamma che con uno stupido gesto suicida aveva salvato la vita del suo piccolo con un ultimo e indimenticabile abbraccio e che aveva lottato inutilmente, ma con coraggio, contro una creatura molto più forte di lei. Il mostro affondò più e più volte gli artigli in mia madre e giocò a lungo divertendosi con il suo corpo dilaniato prima di staccarle la testa con le sue zanne luccicanti. Dopo che l'ebbe divorata finì lentamente il lavoro schiacciando con noncuranza le vite dei miei quattro fratellini di cui aveva sentito l'odore pochi metri più in là. Nel suo sadico gioco io dovevo essere l'ultimo a essere ucciso, perché gli ero scappato, e quell'interminabile attesa dell'inevitabile faceva anch'essa parte della sua vendetta. Dal canto mio ero praticamente paralizzato: avrei voluto piangere ma non avevo mai imparato a farlo, non ne avevo mai avuto bisogno nelle allegre giornate passate con la mamma.
Ma la mamma, per colpa mia, non c'era più e in quel preciso momento conobbi la morte e il mondo, che prima mi era sembrato un luogo fantastico e meraviglioso, si trasformò in qualcosa di crudele e terribile e io non desiderai altro che tornare alle tenebre che per così tanto tempo mi avevano protetto e cullato.
Dopo quegli attimi interminabili sentii dietro di me di nuovo i passi felpati del killer che si avvicinavano, sempre di più, inevitabilmente. Chiusi gli occhi e aspettai lo spostamento d'aria alle mie spalle che avrebbe preannunciato la fine, ma, con mia grande sorpresa, sentii sì un fruscio come di un balzo che però non proveniva da dietro di me, dove si trovava il mostro, ma davanti!
Qualcosa mi aveva scavalcato con un salto, quella stessa cosa che in quel momento stava combattendo contro la bestia e che la stava facendo gridare di dolore!
Le urla strazianti di quella creatura maledetta non durarono molto e quando, con il poco coraggio che avevo in corpo, riuscii ad aprire gli occhi e a girarmi vidi che il mostro giaceva, senza vita, in una pozza di sangue con una profonda ferita al collo.
Davanti a lui stava una piccola e indistinta luce che cominciò ad avvicinarsi sempre di più e, una volta che mi ebbe raggiunto, mi infilò in bocca, senza indugiare, un piccolo contenitore pieno di un liquido amarognolo. Una volta che ebbi deglutito quella strana sostanza sentii un grande calore al petto che a poco a poco si diffuse, come un incendio, in tutto il corpo. Mi rotolai per terra in preda alle convulsioni mentre quel calore, quel dolore insopportabile, saliva sempre più, inarrestabile, fino a raggiungere il cervello.
E in quel momento capii.
E la vidi.
Di nuovo.
La Luce.
Una Luce diversa da quella che avevo visto prima, una Luce che si fece strada direttamente nella mia mente senza passare attraverso gli occhi. Il lume della Ragione. Fu una sensazione stranissima all'inizio. Ma quella Luce a poco a poco sostituii totalmente l'istinto e cominciai a capire, a comprendere il mondo che mi circondava. Ero diventato un essere pensante. Una creatura intelligente, cosciente della propria esistenza. In un attimo tutto divenne incredibilmente chiaro, ma l'elaborazione di tutto quello che era successo in quel giorno mi sconcertò a tal punto che mi fece svenire.
Le Tenebre.
Di nuovo.
E poi ancora una volta venne la Luce.
Mi risvegliai nel luogo che sarebbe diventata la mia casa negli anni a venire e vidi che , davanti a me, stava quella piccola luce che mi aveva salvato dal mostro. Spalancai gli occhi spaventato e vidi che quel luccichino era un essere uguale a me e mi stava fissando sorridendo.
Poi sentii che nella mia mente qualcosa cominciava a prendere forma. Un pensiero. Ancora. Ma un pensiero che non era stato elaborato dalla mia mente ma che proveniva dall'esterno. Un pensiero che poteva essere tradotto più o meno così:
"Come stai piccolino?"
Capii che quella frase proveniva dalla creatura che stava davanti a me, così sforzandomi cercai di costruire un pensiero che potesse tradurre quello che sentivo in quel momento e che mi sembrava la risposta più sensata a quell'impulso esterno. Per me era un'azione estranea e completamente nuova, ma sentivo di potercela fare, così pensai qualcosa che suonava più o meno così:
"Sono morto?"
"Tutto l'opposto", fu la risposta immediata.
Ora, dopo tutto quello che è capitato, non posso che non essere d'accordo.
Negli anni successivi ai fatti di quella giornata, Jules, il mio salvatore, mi spiegò tutto quello che c'era da sapere sulla mia nuova intelligenza e sulla comunicazione mentale. Mi diede anche un nome, Febo, che significa "Dio Sole": il sole, la prima cosa che i miei giovani occhi videro quella maledetta giornata e che tanto mi aveva affascinato. Mi raccontò anche della nostra schiavitù e dei nostri Nemici, e sempre mi diceva che era tempo di ridestarsi dall'oblio e di riprendere possesso di un mondo che eoni prima era stato nostro, un mondo che ci apparteneva di diritto. Così passai tutti quegli anni a studiare il Nemico e capii che la creatura che aveva sterminato la mia famiglia non era altro che uno schiavo di un essere molto più pericoloso e letale. Mi allenai giorno e notte e, con la rabbia e l'odio per il Nemico, crebbe anche la mia forza. Ora sono un guerriero, un assassino freddo e spietato capace di uccidere con un solo preciso colpo qualunque Avversario mi si pari contro.
Jules non addestrò solo me, ma tutti i miei simili presenti in questo mondo.
L'ora e quasi giunta e la battaglia finale si avvicina inesorabilmente.
L'attacco sarà veloce e preciso e, se tutto va come è stato organizzato dal Nostro Messia, non durerà più di quindici minuti, il quarto d'ora più terribile nella storia del Nemico.
In soli quindici minuti l'Umanità cadrà e i Topi erediteranno la Terra.
domenica 2 novembre 2008
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